lunedì 8 giugno 2015

Una sartoria atipica: Intervista a Helder Fontanesi dell’Atelier “Il Bagatto”




Il Bagatto, personificato nelle figure di Norma Tassoni e HelderFontanesi, è l'Atelier presso il quale nel 2011 ho iniziato il mio viaggio nel universo dell'abito su misura. Voglio dedicare a loro e al loro progetto ormai trentasettenale uno spazio dentro questo blog, che probabilmente senza di loro non esisterebbe così come è. Quando ho proposto a Helder e Norma la possibilità di “abitare” con la loro storia questo blog, ci siamo travolti vicendevolmente con racconti e scambi di suggestioni che si sono poi concretizzati in un'intervista di 2 ore a inizio Maggio.

 

Helder ...
La Signora Tassoni ...
Il luogo scelto per l'intervista è stato il terrazzo della loro abitazione. Come il negozio, anche questo è uno spazio surreale, pieno di piante e fiori in vaso e nidi di volatili che liberamente hanno scelto di vivere lì e prolificare tra i fiori del glicine e le rose selvatiche e tra mille e più piante di cui non saprei riferire il nome.


Quando, nel 2011, iniziai la mia ricerca di una scuola o di una sartoria in cui sviluppare un percorso di apprendimento entrai inevitabilmente in contatto con le più diverse e disparate realtà. A Bologna non incontrai nessun Sarto o Sarta disposto a insegnare, mentre le scuole ufficiali si occupavano di formare Stilisti o Modellisti per l'industria. A questo tipo di percorso non ero interessata. La mia idea era progettare attorno alle specificità del singolo individuo. Insomma mi interessava il vecchio “su misura”. Mi interessava la persona nella sua singolare specificità. Del Bagatto mi parlò Elena, un'amica incontrata sul treno Venezia Bologna dopo un workshop allo IED di Venezia. Un giorno presi appuntamento con Helder e, davanti ad un caffè e diverse sigarette, avevo capito di aver trovato lo spazio e le persone giuste per perseguire la mia idea.
 

Allora come oggi, l'Atelier si presenta come uno spazio polifunzionale. L'Atelier è sartoria d'alta moda “uomo donna”; è una sartoria di costumi per il teatro e il cinema; è una collezione di costumi d'epoca che vanno dai primi del '600 ai giorni nostri; è un archivio di riviste d'epoca inerenti al costume e di libri che vanno dalle classiche storie del costume ai pochi manuali scritti nel corso dei secoli sulle tecniche di progettazione e di confezione; ospita sculture e dipinti di alcuni degli artisti che sono transitati nelle sue stanze. Infine, l'Atelier è anche una scuola di modisteria. Sin da subito trovai l’Atelier uno spazio familiare e allo stesso tempo l'ho riconosciuto come uno spazio vivo e vibrante di creatività e passione.

 
La Foto è di Sergio Minniti vedi frankenphotography
 

BETTINA: Come nasce il Bagatto?

HELDER: L'idea del Bagatto nasce tra il 1978 e il 1979. Io uscivo da un percorso politico molto intenso che mi aveva impegnato dal ‘68 ad allora. E diciamo che questa attività non mi rendeva decisamente un soggetto appetibile per un datore di lavoro. Mi ero iscritto prima a Medicina e poi a Scienze Politiche, ma non l'avevo conclusa, per cui a conti fatti sono stato costretto a inventarmi qualcosa per lavorare.

Inizialmente eravamo io e un'amica di Torino e la nostra idea era quella di aprire un negozio in cui avremmo venduto oggetti e abbigliamento etnico a Roma, zona Trastevere: volevamo andare in giro, trovare roba e venderla nel nostro negozio. Quindi andammo a Roma. 
A Roma incontrammo una realtà a noi ostile che ci convinse a tornare a Bologna. 
A Bologna trovammo uno spazio in via Mascarella, coinvolgemmo Norma, e chiamiamo il "negozio’ Il Bagatto.

B: Il Bagatto è un nome interessante ... quali sono le ragioni alla base di questa scelta?

H: Il Bagatto è l'arcano che rappresenta il mago, cioè colui che ha la possibilità di fare senza per altro avere nessuna specificità. Ed io in quel momento mi sentivo così, per cui mi sembrava un buon nome. Inizialmente Il Bagatto è quindi una società a 3.

B: In che modo Norma entra in questo progetto?

H: Norma la coinvolgemmo per il suo percorso personale. Lei proveniva dalla scuola della Giulia Fontanesi Maramotti – Giulia è la madre di Achille Maramotti fondatore di Max Mara - e aveva lavorato in alcuni degli Atelier di alta moda di Bologna. Il suo percorso era legato alla sartoria artigianale di alto livello, motivo per il quale ci sembrò una buona idea coinvolgerla. Così apriamo, ma dopo poco la mia amica decide di abbandonare il progetto per tornare a Torino. Così termina la prima fase. Da quel momento in poi Il Bagatto viene sottoposto ad una ulteriore fase di elaborazione e riflessione, durante la quale si trasforma da contenitore di oggetti trovati a contenitore di oggetti autoprodotti, autoprogettati. Inizialmente io progettavo la bigiotteria, mentre Norma si occupava degli abiti. Poi mi avvicinai anch'io all'abito, all'inizio per curiosità, ma dopo mi appassionai.

B: Come è stato essere sia socio che allievo di Norma?

H: Imparare è stato complesso. A quel punto ero entrato nel territorio di Norma e Norma ha difeso i suoi confini strenuamente, disseminando il mio percorso d'allievo con ostacoli e trappole. Al punto che sono andato a Reggio Emilia per frequentare la scuola di taglio della Maramotti. Era una cosa di per se stessa ridicola, visto che Norma era non solo l'allieva prediletta, ma anche il braccio destro della Giulia. Comunque, di ritorno dalla mia esperienza a Reggio, Norma si convinse e cominciò a trasferirmi la sua conoscenza. Un trasferimento che tra l'altro prosegue ancora oggi.

B: Definiresti il bagatto come una Sartoria?

H: Il Bagatto non è mai stato una sartoria, come io non credo di essere mai stato un sarto. Il Bagatto è un luogo di sperimentazione, è un luogo di ricerca e di creatività. Il Bagatto è una realtà controcorrente. Questo perché il Bagatto è stato aperto in un momento in cui le sartorie chiudevano, per cui si è subito posto controcorrente rispetto al mercato, ed è controcorrente perché rispecchia le persone che lo hanno creato. Da un lato c'è Norma, che è più una maestra che una sarta, è più creativa rispetto ad una sarta.

B: Possiamo definire Norma una “levatrice”, cioè colei che aiuta la nascita?


H: Norma non insegna solo un mestiere, ma attraverso il mestiere aiuta l'allievo ad esprimere la ricchezza che ha dentro. Norma fornisce gli strumenti attraverso i quali l'allievo, se vuole, può dare forma alla sua creatività, alle sue visioni. Questa è stata la scelta alla base del suo percorso di vita, perché Norma ha avuto più di un'occasione per aprire un suo Atelier, ma non lo ha mai fatto perché non era quello che le interessava. La creatività di Norma si esprime soprattutto nel processo dell'insegnamento e nello sviluppo di un metodo attraverso il quale passano sia i contenuti tecnici, sia il modo di usare questi contenuti per esprimersi creando.

B: Come vedi il futuro del Bagatto?

H: Per quello che è possibile, io voglio che il Bagatto resti un centro dove si esprima e si dia forma alle idee, dove chi vuole imparare prendendo in mano le chiavi di un mestiere possa farlo acquisendo strumenti che poi utilizzerà per farci quello che più ritiene opportuno. La nostra scuola “di mestiere” non dà una struttura, ma traccia un sentiero. Tira fuori da ogni allievo la sua specificità, il suo potenziale e gli dà gli strumenti da investire in un progetto personale. Secondo noi questa apparente mancanza di struttura serve a stimolare nell'allievo la ricerca del proprio progetto personale.


Per noi, inoltre le mani sono collegate al cervello e hanno lo stesso valore. Nella mia Scuola di Mestiere il lavoro intellettuale e quello manuale sono parificati. Qui chi progetta realizza in prima persona. La Cultura, quella vera, è quella che nutre il cervello, è quella che ti fa crescere e ti da gli strumenti per interpretare e comprendere la realtà che ti circonda e non è in contraddizione con il saper-fare, non è in contraddizione con il saper-fare un mestiere e con il farlo. Forse è per questo che il Bagatto per alcuni è un'esperienza disorientante. Tuttavia io continuo a fare così, perché credo che sia così che si formi il nuovo artigiano. Perché altrimenti hai questa idea dell'artigiano antico, fossilizzato in un passato lontano.


B: A questo punto forse ci dovremmo anche chiedere chi è l'artigiano contemporaneo? Cosa fa? Come gestisce il rapporto con il cliente e chi è il cliente dell'artigiano contemporaneo?


H: Innanzi tutto il cliente dell'artigiano è un cliente esigente, con una cultura medio alta. E' un cliente che cerca qualcosa di diverso rispetto all'offerta del mercato, cerca qualcosa di più vicino a se stesso, qualcosa di più umano. Ci troviamo di fronte ad un cliente che è alla ricerca di un'alternativa, è un cliente curioso. Vedi, Betty, io con molti dei miei clienti mi trovo spesso a fare lezioni di merceologia, perché in molti casi ci troviamo di fronte a persone che non sanno distinguere un tessuto sintetico da uno naturale e sono persone che vogliono conoscere questa differenza. Siamo di fronte ad un cliente nuovo, preparato, che vuole delle informazioni corrette perché si è stufato dei brand e delle loro dinamiche. Viene da sé che l'artigiano deve essere pronto a sperimentare nuove soluzioni insieme al suo cliente fornendo una valida alternativa.


Inoltre l'artigiano moderno ha anche la responsabilità di fare un discorso di civiltà. Come esempio prendo il mio settore, ma il discorso può essere esteso. L'industria della moda ha delle responsabilità non solo per quanto riguarda l'impatto sull'ambiente di una produzione indiscriminata e irresponsabile, ma perché affama e tiene in stato di schiavitù popolazioni intere. E l'artigiano oggi deve prendere posizione, ripensando un modo nuovo di fare le cose e proponendolo come alternativa. Perché c'è sempre un'alternativa. E nell'aria il bisogno di questa alternativa, è presente, e per cogliere e interpretare questa necessità bisogna possedere e coltivare un pensiero flessibile, creativo, pronto a gestire la complessità di questo momento, che è un momento di grande cambiamento. E' anche per questo che il nostro metodo è apparentemente de-strutturato. Perché il mondo che l'artigiano oggi ha di fronte non è quello di ieri.


B: Come vedi il futuro della sartoria in questo contesto?


H: Oggi il tempo scorre molto veloce. Le persone vedono, vogliono, comprano, indossano e ricominciano a correre reinserendosi nel flusso... Adesso, riproporre la sartoria oggi significa riavvicinare i giovani a una modalità di consumo dell'abito diversa. Gli abiti non escono dalla macchina “belli che fatti” in cinque minuti. Quando ero giovane, farsi fare un vestito ero comune. Le sarte in casa gestivano i bisogni delle classi meno agiate, mentre le sartorie ufficiali vestivano l'alta società. Farsi fare un vestito, scegliere un tessuto, immaginare qualcosa che ancora non esisteva e attendere il tempo necessario per averlo, andare a provarlo ... insomma c'era una maggiore familiarità con la materia.

Oggi tutto questo substrato va ricostruito e ovviamente adattato alla realtà contemporanea che non è più quella di quando ero giovane io. Il ruolo del sarto oggi è tutto da riscrivere. Secondo me oggi una sartoria può essere un'area creativa, un luogo in cui si immaginano soluzioni alternative per vestire e per vivere. Un luogo in cui chi ha idee diverse incontra il giusto supporto per realizzarle. Un luogo in cui si ristabilisce il giusto rapporto corpo-abito. Nel senso che non è il corpo a doversi adattare suo malgrado all'abito, ma è l'abito che si adatta al corpo, valorizzandolo. Anche perché i modelli estetici proposti dalla moda sono funzionali alla produzione in serie. Le taglie sono un'astrazione statistica, non sono la realtà. E sono un'astrazione funzionale alla produzione e a nient'altro. Insomma un luogo in cui non sono le multinazionali della moda a decidere come devi essere e cosa ti devi mettere e quando, ma sei tu. Vestirsi è un gesto pieno di senso e di responsabilità verso se stessi e il pianeta che abitiamo.  L'artigiano può inserirsi in questo spazio. Una produzione di massa non può gestire la singolarità dell'individuo, ma l'artigiano sì. C'è la necessità di rivedere i nostri stili di vita in un'ottica di sostenibilità ambientale, sociale e personale.

B: Quale è il tuo rapporto personale con l'abito?


H: Voglio subito sgombrare il terreno da ogni dubbio: io non sono uno stilista. Quando ho iniziato a fare vestiti ho capito subito che quel percorso non mi interessava. Non ho mai né voluto, né sognato di essere uno stilista famoso. E neanche uno stilista meno famoso. Il mio approccio con l'abito è stato innanzi tutto basato sull'essere affascinato dal fatto che potevo trasformare il tessuto facendolo diventare altro. E a me questa cosa mi ha preso molto. Poi mi sono accorto che quando vai nell'approccio con le persone, l'abito è una seconda pelle. Guarda: quando io mi sono iscritto a medicina, l'ho fatto perché volevo fare lo psichiatra. Questo era il sogno nel cassetto. Oggi mi sono accorto che quello che faccio non è molto lontano, poiché attraverso l'abito ti avvicini alla psiche dell'altro. Perché l'abito su misura è il prodotto finale di una relazione intima con la persona con la quale stai lavorando. A me le persone affascinano e fare l'abito è un mezzo per costruire un rapporto con le persone, conoscerle, condividere con loro il loro mondo interiore per certi versi. Insomma, quando fai un abito su misura, sei a stretto contatto con il cliente. Traffichi intorno al suo corpo, traffichi con il suo immaginario, con il suo desiderio, con l'immagine che di se vuole dare al mondo. Per cui, da un certo punto di vista ho soddisfatto per certi versi anche questa pulsione.


B: Come si pone Helder Fontanesi nei confronti dell'industria della moda?

H: L'industria della moda è, a mio parere, un settore come tanti altri, ma forse più di altri dominato da quella che definirei un' “etica pelosa”, cioè un'etica che considera giusto sfruttare le sfighe degli altri per arricchirsi. Ecco, io non voglio partecipare a questa cosa. La gente che lavora va pagata nel modo corretto, perché il lavoro mal pagato non è più lavoro, ma schiavitù. Guarda che oggi il settore del tessile è ai minimi storici per quanto riguarda gli stipendi, e non solo in Cambogia, ma anche in Europa. Tutte le professioni che ruotano intorno al tessile sono state svalutate ai limiti legali concessi dalla legge. E di questo hai fatto esperienza anche tu in prima persona. Adesso non si possono fare i nomi e i cognomi, anche se bisognerebbe farli, ma siamo tutti responsabili di questa situazione.


Io sono convinto che si può fare anche diversamente da così, magari ci si accontenta di un po' meno utile, ma non ci credo che per guadagnare bisogna sfruttare, umiliare, assoggettare ... e via così. Si può sfruttare il lavoro senza compromettere la dignità del lavoratore e il valore delle competenze che questi mette in gioco nel rapporto con il suo datore di lavoro. E a questo aggiungo che anche il consumatore ha le sue responsabilità. Perché è un dovere civile chiedersi da dove viene la roba che ti metti addosso, come è stata prodotta, e quali sono le condizioni di vita di chi l'ha prodotta. E questo vale per la moda a buon mercato e per la moda di alta gamma. Oggi come oggi pagare una giacca 2.000 € non è garanzia di niente. Infatti la persona che l'ha confezionata riceverà probabilmente la stessa retribuzione mensile di quella che ha prodotto la T-Shirt da 2€. Io rivendico tutto il percorso politico e culturale che ho fatto dal '68 alla fine degli anni '70. Rivendico tutto, anche gli errori. Perché solo chi non fa non sbaglia. E adesso tocca alle nuove generazioni alzare la testa e fare qualcosa, tocca ai nuovi artigiani, ai nuovi imprenditori, ai nuovi sarti offrire un modo nuovo di fare le cose, un modo più sostenibile, più equilibrato. Sta ai giovani recuperare il valore e il senso delle cose, un valore e un senso che non può essere solo convertito in denaro. C'è di più dei soldi, di arricchirsi. E quel di più non ha prezzo.


B: Condivido questa posizione, perché oggi non c'è niente che mi garantisce che il signore o la signora che hanno cucito l'abito da 2.000 € abbiano ricevuto un compenso proporzionato al valore dell'abito.


H: Sì, ma questo è un sistema che secondo me è destinato a saltare. A furia di andare a cercare i più poveri del mondo per pagarli sempre meno è un meccanismo che poi va alle corde. Anche quello poi finisce. Sia perché questo è un sistema che sta riempiendo il pianeta di stracci e sia perché la gente ha un accesso all'informazione diverso che in passato. In questo contesto, il signore che confeziona l'abito da 2.000 € per due soldi, a un certo punto si fa delle domande e giustamente chiede delle risposte. Contemporaneamente anche il consumatore si chiede e chiede al produttore dell'abito da 2.000 €: "Perché mi fai pagare 2.000 € un abito che ne a te é costato 20 €. Dove sono finiti gli altri 1.980 €? E prima o poi a queste domande bisognerà che qualcuno dia delle risposte. E a quel punto il sistema crolla, perché crolla la magia. Nessuno vuole indossare qualcosa che è stato confezionato da un bambino o da una donna o da un uomo che lavora come una bestia per una ciotola di riso. Almeno spero!


B: Quale è il rapporto del bagatto con le altre sartorie a Bologna?


H: Questa è una sartoria che non viene riconosciuta come tale dalle altre sartorie. E Il Bagatto non si riconosce nelle altre sartorie. Intanto a Bologna siamo l'unica sartoria che insegna il mestiere. Tendenzialmente i sarti non insegnano più. Sono rari i sarti che insegnano, perché è come se avessero paura di essere derubati del lavoro. Ogni sarto è chiuso nel suo laboratorio a proteggere il suo lavoro, che per altro morirà con lui. Per me il mestiere va arricchito e trasmesso. Non trasmettere la conoscenza è una forma di narcisismo idiota. La cultura è viva e deve circolare soprattutto nell'ambito dell'artigianato. L'arte applicata ha una metodologia di trasmissione in cui il rapporto maestro allievo è alla base dell'apprendimento. Se la blocchi, se smetti di insegnarla, scompare, si estingue. La battaglia per salvare questo mestiere va oltre le invidie, le paure e le insicurezze dei sarti. Anche perché poi non tutti i sarti vanno bene per tutti i clienti. Ogni cliente un sarto, ogni sarto un cliente. E ti dirò questo è il bello di questo lavoro. Il mio modo di fare i vestiti può piacere oppure no. A chi non piace va da un altro sarto. Di lavoro ce n'è per tutti!

E questa sono io con un abito di fine '800 della collezione di abiti d'epoca dell'Atelier

E questo è tutto!


A presto,


B.V.

3 commenti :

Grazie ;-)